STRUMENTI CULTURALI

del Magazzeno Storico Verbanese

L`apetìt

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Primo Autore:
Leopoldo Minola
Secondo Autore:
 
Titolo:
L`apetìt
Testo Completo:
L’apetìt

A chi abbia incontrato, nelle pagine elettroniche del sito sociale del Magazzeno Storico Verbanese, la prima poesia che ho pubblicato «per conto di mio nonno», intitolata “La brièla”, spero sia venuto il desiderio, l’appetito di conoscerne altre. E allora, anche io con l’acquolina in bocca, propongo al cortese lettore la seconda, intitolata L’apetìt.



L’apetìt

Di Leopoldo Minola

Quand che j anziàn d’adèss ‘na volta éran pinìt,
savévan quasi tuc’c’ cus l’era l’apetìt;
savévan quajcòss d’aalt, dificil da spiegàa,
ma facil da sentìi, dadéent a sbursigàa!

Se un tuchetìn da pan intèra al nava giù,
subìt, cum gran rispèt, s’dueva catàal su,
se l’era un pòo spurchìn a l’era prést pulì,
bastava bufàac su… e l’era benedì.

Al ròst da la pulenta, magari un pòo brùsà,
sa rùsùjava tùt… zartàa l’era pecà!
La crusta dal furmac’… o còta in su la stùa
o déntar in t’al bròod… par cundìi ben la sùpa!

I sciàamp da la galina dàvan un pòo da fàa,
cum qula pelisina tùta da scurtigàa…
Quant a j òss da fàa bùj, éran tùc’c’ ben sùbià
par fàa gnìi fòo l’agnula… e dopu, spilùca.

Che buna la saràca! qùj bèj scigùl rustì…
un tuchét da strachin e i patati buji,
al làard cum la sò cudiga, ‘na fèta ad pan da biava
e par certi ucasiòn, un furmagìn da crava!

Se po’, par’na quaj festa, rivava un salamìn,
l’era perméss mangiàa la pèl e un pòo d’ curdìn!
La turta a gl’era mia, ma gh’era un quaj bunbòn,
fàj su in ecunumia par tégna i tradiziòn.

Dapartùt vitamìin: j urtig in la minestra,
al cicurjin di prà, zùca, fasòòj, la verza,
paniscia, rìis e lac’, orzi, castégn, pancòt
e qùj pumìt d’Audàsc… dùùr cume bal da s-ciòp!

In t’i mées da l’està, in méz a la cùsina,
pendeva un strisciulìn da carta gialdulina.
I mùsc e i farfalìt che gnévan déent in cà,
vulando tròp visìn, restavan patacà.

Ma se s’rumpévan j àal, bùrlàvan giù in t’al piàt,
“Ti vòò sbàt via tùt? Ti sarée mia mat!”
«L’è po’ ‘na povra muwsca, l’è mia tèra o sàas!»
«Purscelin tròp pulìit al pudrà mai gnìì grass!»

Se cum tùc’c’ sti menù gh’era un quaj scirimìga
che par gnìi gràand al faséva fadiga
gh’era un rimédi ùnic…cùravan bèli tùc’c’
a la matìn, a scòla, cum l’oli da merlùz!

Che spùzza la cartèla! Quaderni, fòj, matìt!
Spùzzàvan anche i bàanc, l’inciòstar e i penìtt!
Facendo cumpisina, mangiando dré un pòo d’ pan,
cresséva un pòo ‘l cervèl, calava un pòo la fam!

Libera traduzione di Isa Minola

Quando gli anziani di adesso una volta erano bambini,
sapevano quasi tutti cos’era l’appetito.
Capivano anche qualcos’altro, difficile da spiegare,
ma facile da sentire come un pizzicore nello stomaco!

Se un pezzettino di pane cadeva per terra,
subito, con grande rispetto, bisognava raccoglierlo.
Se si era un po’ insudiciato era presto ripulito,
bastava soffiarci sopra…ed era benedetto.

La crosta della polenta, magari un po’ bruciacchiata,
si rosicchiava tutta… sciupare era peccato!
La crosta del formaggio…o scaldata sulla stufa…
o dentro nel brodo… per condire bene la zuppa!

Le zampe della gallina davano alcune difficoltà
con quella pellicina tutta da staccare…
Le ossa del bollito erano tutte ben succhiate
per farne uscire il midollo… e dopo piluccare.

Che buona l’aringa! Quelle belle cipolle arrostite…
un pezzetto di stracchino con le patate bollite,
il lardo con la sua cotenna, una fetta di pane di segale
e in certe occasioni un formaggino di capra!

Se poi, per qualche festa, arrivava un salamino,
era concesso di mangiare la pelle e per giunta anche un po’ di cordino!
La torta non c’era, ma c’era qualche dolcetto
fatto in economia per conservare le tradizioni.

Dappertutto vitamine: le ortiche nella minestra,
la cicoria dei prati, zucca, fagioli, la verza,
paniscia, riso e latte, orzo, castagne, pancotto
e quelle piccole mele di Vedasco… dure come palle da schioppo!

Durante i mesi estivi, in mezzo alla cucina
pendeva una strisciolina di carta giallina.
Le mosche e gli insetti che entravano in casa,
volando troppo vicino, rimanevano appiccicati,

Ma se si rompevano le ali cadevano nel piatto.
“Vuoi buttare tutto? Sei impazzito?”
«È poi solo una povera mosca, non è terra o sasso!»
«Porcellino troppo pulito non diventerà mai grasso!»

Se con tutti questi menù c’era qualche mingherlino
che faticava a diventare grande
c’era un rimedio unico, curavano tutti quanti
alla mattina, a scuola, con l’olio di merluzzo!

Che puzza la cartella! Quaderni, fogli, matite!
Puzzavano anche i banchi, l’inchiostro e i pennini!
Accompagnando l’olio con qualche pezzetto di pane
cresceva un po’ il cervello, calava un po’ la fame!



Nota della trascrittrice traduttrice: confesso che anch’io ho fatto in tempo a storcere il naso all’avvicinarsi di un cucchiaione di olio di fegato di merluzzo! Certo, ora viviamo nell’abbondanza, un’abbondanza che si traduce in spreco e malessere; forse perché oggi abbiamo perso quel rispetto che, come racconta mio nonno, faceva «catàa su un tuchetìn da pan che al nava giù». Questa era l’educazione di un tempo: chi rispetta il pane ha rispetto per tutto. Ricordiamocelo.
A Cura di:
   [Isa Minola]

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