Le descrizioni, che abbiamo date del Margozzolo e del Lago Maggiore, ci rappresentano in parte la condizione loro attuale. Conosciuto così il terreno, del quale dobbiamo quinci innanzi occuparci, passiamo ora a rilevare quale esso fosse nei tempi da noi più remoti, non esclusi i preistorici, a fine di porre in chiaro, per quanto ci sarà possibile, le variazioni, alle quali andò soggetto nella successione dei secoli, che ne precedettero. Incominciamo dalle tradizioni intorno al Lago, che ci pervennero per mezzo degli scrittori.
Omettendo di parlar di coloro che hanno creduto ricordato il nostro Lago da Virgilio in quei notissimi versi:
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An mare, quoti supra, memorem, quodque alluit infra?
Anne lacus tantos? te, Lari maxime? teque,
Fluctibus et fremitu assurgens, Benace, marino?,1
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osserverò da principio, che il nome originario di esso, e col quale ci comparisce la prima volta presso gli antichi scrittori tanto greci, quanto latini, è Verbano.
2 Molte sono le opinioni emesse dagli eruditi intorno all’origine di questo vocabolo: alcuni il vollero tratto dal nome di un guerriero dimorante sulle sponde di esso lago; altri dalla moltitudine dei linguaggi usati nei diversi paesi, che lo circondano, quasi a
diversis linguis o
verbis; altri dal vento
vernia o inverno, dai quale è dominato ed altri finalmente da un’erba conosciuta sotto di nome di
verbena, quasi
verbana, che quivi intorno cresceva e che era di un uso sacro presso gli antichi: tutte etimologie che poggiano sul falso e insostenibili affatto. il nome Verbano non è di origine latina, ma a quanto pare gallica o celtica, ovvero anche antica germanica, come che voglia dirsi, né credo, che si possa d’altronde spiegare, che ricorrendo ad una di queste lingue antichissime parlate dai popoli, che vennero i primi a pigliar stanza su queste sponde.
Si colloca da Plinio nell’undecima regione d’Italia alle radici delle Alpi insieme con quello di Como, chiamato a quei giorni Lario,
3 ma nulla aggiunge intorno alla loro estensione. È notevole però l’osservazione che fa intorno ai fiumi, che escono da questi laghi, scrivendo che le acque loro entrando in essi, come più leggere, sornuotano alle altre e se n’escono anche dopo molte miglia seco traendole e nella medesima quantità.
4 Altrove poi lo stesso Plinio nota siccome una rarità particolare di questi due laghi che al principio di maggio compariscono in essi certi pesci ornati di squamme spesse ed acute a guisa di chiodi e che dopo quel mese più non si veggono.
5 Scrive il Morigia che Plinio intendeva, senza nominarlo, di parlare del pesce
pigo (il
cyprinus pigus dei naturalisti), che solo si trova in amendue questi laghi, e ce lo descrive col capo tondo, col muso serrato ma molto in fuori, e colla bocca mediocre senza denti.
6 Il co. Giulini (Part. III, p. 85) conferma il detto del Morigia e soggiunge, che la ragione, per la quale quei pesci più non si veggono negli altri mesi è, perché dopo quell’epoca non compariscono più armati di quelle squame, che depongono per rimetterle poi di bel nuovo.
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Tali sono le notizie che del nostro Lago ci lasciò scritto il più celebre de naturalisti Latini. Tra i Greci antichi Polibio Strabone sono i soli che lo ricordano e che ci danno inoltre le sue dimensioni, ma il secondo sulla fede del primo: la qual cosa ci può far supporre, che Strabone non abbia punto visitato il nostro Lago, se si è tenuto semplicemente alla testimonianza di uno scrittore fiorito oltre un secolo e mezzo prima.
8 Siccome questa testimonianza andò soggetta a molti e disparati commenti, gioverà recarla per intero quale si legge presso Strabone, tradotta però in Italiano.
«Narra Polibio, che nelle regioni alpine vi hanno più laghi, de quali tre principali: il Benaco lungo 500 stadi, largo 150, dal quale esce il Mincio. Dopo questo il Verbano che si estende in lunghezza per ben 400 stadii ed è di 30 stadii più angusto del primo. Il suo emissario è il Ticino. II terzo lago è il Lario, lungo circa 300 stadii e largo 30».
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Secondo Polibio dunque, ritenendo esatte le proposte dimensioni, il nostro Lago Maggiore, ossia il Verbano, sarebbe stato in quei tempi lungo 400 stadii e largo 30 stadii meno di quello di Garda, cioè stadii 120.
10 Ora calcolandosi il miglio romano antico della lunghezza di otto stadii,
11 e sapendo noi che il detto miglio è di un quinto minore del geografico, si avrebbe che il Lago Maggiore, ai tempi di Polibio, sarebbe stato lungo 50 miglia romane, pari a 40 miglia geografiche, e largo miglia romane 13, pari a 12 geografiche, cioè sarebbe stato, secondo le dimensioni che abbiamo date di sopra, quattro miglia più lungo e cinque più largo che non sia di presente dimensioni non guari esagerate e che reputo sostenibili anche per altri documenti.
E di vero, che il nostro lago fosse in antico assai più elevato, e quindi più esteso, è costante tradizione presso tutti gli scrittori di esso. Per tacere del Bescapè, del quale parlerò tra poco, basterà dire, quanto all’estensione che per la testimonianza del Ballerini presso il Franscini (vol. II, P. 2, p. 204) il Lago Maggiore al principio del XII secolo si estendeva sino a Gordola; e che questa sentenza ha un appoggio nella Cronaca della Novalesa, nella quale si legge ch’esso nell’XI secolo contava appunto 40 miglia di lunghezza.
12 Se si protenda pertanto il lago da Magadino a Gordola per l’una parte, e da Sesto Calende sino a Vergiate, dove è fama giungesse il lago in remotissimi tempi, si troverà, che quella estensione non è guari lontana dal vero. Una ragione poi dell’abbassamento del lago si ha dal Morigia, il quale riferisce la tradizione che correva ai suoi giorni, che i Longobardi cioè avessero abbassato il letto del Ticino:
13 tradizione conservataci anche dal Del Sasso Carmino, il quale nella sua
Informazione storica di Cannobio (P. I, e. 2) scrive che «le case (
di quel borgo) furono cominciate a fabbricare lungo le rive del Lago, dopo che i re de’ Longobardi fecero stoppare l’antica bocca, per la quale usciva dal Lago il Ticino e fecero aprire una nuova bocca con letto più largo e più diritto, per cui il lago si abbassò di molto».
Anche quanto alla sua larghezza soggiungerò, che all’epoca di Polibio, e dicasi lo stesso di alquanti secoli dopo di lui, il lago di Mergozzo dovette essere congiunto in un solo lago col Maggiore; ond’anche seno Mergozziano (
Sinus Mergotianus) chiamato dal Macagno nella sua Corografia pubblicata l’anno 1490. E basta, senz’altre testimonianze, la semplice ispezione del luogo per rimanere convinti di questo fatto.
14 Ora se dal luogo di Mergozzo sino all’altro seno posto tra le foci del Bardello e dell’Acquanera, che in tempi molto remoti dovette essere ancor più profondo, si voglia tirare una linea retta si troverà facilmente, che le 12 miglia di larghezza date da Polibio al nostro Lago non sono di molto soverchie. E questo basti per conciliare l’autorità dell’antico scrittore colla ragione dei tempi.
Tali dunque sono le memorie serbateci del nostro lago dai Romani e dai Greci: ma molto più di quello d’essi non seppero dirci intorno alla condizione remotissima del Verbano o delle contrade adiacienti, ci venne rivelato, non sono ancora molti anni dalla natura loro medesima diligentemente investigata e con sagacia pari alla scienza interrogata da valenti geologi.
La catena delle Alpi che circondano il nostro Lago ad occidente ed in generale tutte le Alpi che cingono la penisola a settentrione, sono state l’oggetto di lunghi studi de’ più distinti naturalisti dei tempi moderni. Primo a gettare le basi di questo studio fu il celebre Orazio De Saussure, il quale vi applicò l’ingegno dal 1770 fino al 1786, ed ebbe un circa quarant’anni dopo a suo felice continuatore e perfezionatore del suo metodo il non men celebre Elia De Beaumont, la cui teoria fu quella che oggi giorno si segue.
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Conseguenza di questi studi fu l’aver rilevato, che il sistema delle nostre Alpi offre indizii certissimi di un sollevamento posteriore alle altre catene tutte de’ monti che si elevano sulla faccia del nostro globo. Secondo lui apparterrebbe questo sollevamento all’epoca iurassica cretacea, terziaria,
16 e non credo improbabile, che a quest’ epoca primitiva, anteriore all’esistenza dell’uomo su questa terra, appartenga l’osservazione che trovo registrata dall’Amoretti nell’opera citata a pag. 19. «Angera e l’opposta Arona stanno, egli scrive, appiè di due monti dello stesso sasso: il che vedesi ad evidenza quando si sta sul Lago tra ambedue, e vedesi che il monte era continuato, ma fu diviso dal Ticino, che si aprì qui la strada».
Non è del mio scopo esporre le varie ipotesi fatte per ispiegare questi sollevamenti, come anco di esaminare le conseguenze da essi prodotte sul nostro globo, quali furono precipuamente gli sterminati ghiacciai, le oscillanti morene, i depositi lacustri ed altrettali fenomeni, de’quali si occupano esclusivamente i geologi e i paleontologi.
Dirò soltanto, come in questi ultimi anni i trovanti o massi erratici richiamassero in modo speciale la loro attenzione. Osservarono essi, che trovandosi questi massi sparsi qua e là nelle valli e sopra ogni sorta di terreno e di natura, talora diversa da quella delle rocce circostanti, non potevano essere caduti da queste, ma venir da lontano. Ma donde e come? Altri opinarono che potessero essere stati trasportati da enormi correnti acquee o fangose, altri da ghiacciai incomparabilmente nei tempi primitivi più estese che oggidì, altri che fossero lanciati in aria e sparsi all’intorno da scoppii violenti analoghi a quelli degli attuali vulcani, ovvero portati da zattere di ghiaccio galleggianti sul mare, che altra volta copriva tutte le pianure e le valli sino ad una certa altezza.
I geologi furono a principio quasi tutti favorevoli alla prima di queste opinioni, pochi assai alle seconde, quando nell’agosto del 1815, uno dei più distinti naturalisti svizzeri, sig. Charpantier, esponendo la sua teoria de’ massi erratici ad un cacciatore di camoscio per nome Giampietro Perraudin questi gli fece invece osservare, come i ghiacciai delle Alpi fossero un tempo assai più estesi, e come a cagion d’ esempio la valle del Rodano fosse stata tutta occupata da un solo ghiacciaio, e che quindi a questo dovevasi secondo lui il trasporto dei massi erratici.
Il detto del Perraudin fu come un lampo di luce pel Charpantier, il quale, postosi a meditarvi sopra venne dopo lunghe veglie e fatiche a formolare una nuova teoria sul trasporto de’ massi erratici per mezzo di antichi e giganteschi ghiacciai che espose la prima volta nel 1834 ad un congresso di naturalisti Svizzeri in Lucerna, e che dopo lungo dibattimento finì coll’essere accolta favorevolmente. In appresso I’esistenza di questi antichi ghiacciai dalle più alte Alpi sino alla pianura fu provata da altri geologi, i quali dall’attento esame che ne fecero, confermarono altresì il continuo loro moto, benché assai lento, verso il basso della valle, alla quale da ultimo pervenuti si sciolgono a poco a poco e scompaiono. Confermarono inoltre l’osservazione, che i massi, talora di 20 e più metri di lunghezza, e i detriti di vario genere, che cadono isolatamente o in frane, dalle montagne circostanti a un ghiacciaio si accumulano sui lati del medesimo con un certo ordine, formandovi degli argini più o meno elevati, che accompagnano sempre nel suo moto il ghiacciaio e ne toccano i margini, e sono chiamati morene, le quali dal luogo che occupano in uno o più ghiacciai, che vengono ad incontrarsi, si distinguono in
morene laterali, destre o sinistre, secondo il posto loro,
morene mediane o
superficiali,
morene frontali o
terminali,
morene d’ostacolo, se il ghiacciaio non può progredire per incontro di un monte, che non può sorpassare, e morene profonde, se vengano a trovarsi al disotto dello stesso ghiacciaio.
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Applicando questa teoria al nostro lago, si venne a determinare che nell’epoca chiamata dai geologi quaternaria, tutta la vallata dall’una parte della Toce era occupata da un vasto ghiacciaio che ha lasciato le sue morene d’ostacolo e laterali sui monti di Baveno e sul monte Orfano,
18 dividendosi poscia in due rami, l’uno de’ quali occupò il lago d’ Orta e la sua valle e l’altro il Lago Maggiore tra Pallanza e Baveno, e dall’altra parte, che il ghiacciaio del Ticino si estendeva sino alle più meridionali morene di Borgo Ticino, coprendo tutto quanto v’ha tra i monti di Arona e quelli di Varese. Spiegarono in questo modo la formazione delle colline, che hanno tutti i caratteri delle morene e coi ciottoli sparsi al piede delle Prealpi, e la regolare disposizione dei massi erratici e dei ciottoli provenienti dalle diverse valli sulle due rive del Lago Maggiore, e la formazione delle colline e dei dossi arrotondati, levigati, solcati e striati, che vi s’incontrano. Tal è la teoria del Charpentier esposta dal Dott. Giovanni Omboni,
19 che ho seguito fin qui.
Alcuni anni appresso scrivendo quasi nello stesso senso Leopoldo Maggi
20 riconfermò l’esistenza del ghiacciaio del Lago Maggiore, e soggiunse che «altro ghiacciaio era quello del Monte Rosa, altro quello del Sempione conosciuto sotto il nome di Acqua fredda. Questi due ghiacciai, scrive, invasero la valle della Toce e insieme riuniti formarono una morena che ostruiva le valli opposte, le quali di conseguenza non trovando uno scolo, dovettero quelle acque accumularsi e formare altrettanti laghi. Di poi ritirandosi a poco a poco i ghiacciai ostruenti, lasciarono libere le acque dei laghi opposti, le quali così poterono rompere le loro dighe e versarsi nel Lago Maggiore». Di che si raccoglie, che in quest’epoca i laghi di Varese coi suoi vicini dall’una parte e il Lago d’Orta dall’altra non formarono che un solo Lago, il Maggiore.
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Avvegnaché questa teoria, che sembra oggidì comunemente accertata, lasci forse ancora qualche cosa a desiderare, e non possa forse né anco dirsi la sola che basti a dare una spiegazione di tutto,
22 ciò nondimeno l’ho seguita ed esposta, perché torna in oltre, a modo mio di vedere, acconcissima a spiegare una tradizione antichissima tra di noi, e della quale vo’ tosto occuparmi.
1 Nelle Georgiche (II, 158). – Opinarono essi che il nostro Lago sia stato dal poeta indicato in quel
Maxime, che farebbero corrispondere al Maggiore, distinguendo perciò coll’interpunzione il
Lari (?), dal
Maxime (?), contro ogni proprietà di linguaggio: la qual cosa basta solo avere accennata, perchè sia ad un tempo anche confutata.
2 In Latino
Verbanus o
Verbannus, come anche scrivono taluni sull’autorità di alcuni codici di Plinio nei luoghi che citerò appresso. Non sembra però che questa seconda scrittura sia da preferirsi alla prima, la quale ci viene altresì confermata dalla voce greca Ουερβαυóς presso Strabone VI, 6, 12.
3 In hac (decima)
regione, scrive Plinio (III, 23, 4, §. 131),
et undecima lacus incluti sunt, amnesque eorum partus aut alumni, si modo acceptos reddunt, ut Adduani, Larius, Ticinum Verbanus, ecc.
4 Ecco le sue parole al libro II, 106, 2, §. 224.
Quacdam vero (aequae) et dulces inter se supermeant alias, ut in Fucino lacu invectus amnis, in Lario Addua, in Verbano Ticinus, multorum milium transitu hospitales suas tantum, nec largiores quam intulere aquas evehentes – A questa opinione raccolta da Plinio sembra che alluda anche Silio Italico, il quale così descrive il corso del Ticino nel libro IV, 86-87 dalla sua uscita del Lago:
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Caeruleas Ticinus aquas et stagna vadoso
Perspicuus servat turbari nescia fundo,
Ac nitidum, viridi lente trahit amne liquorem.
Vix credas labi: ripis tam mitis opacis
Argutos inter volucrum certamine cantus
Somniferam ducit lucenti gurgite lympham.
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Da questi due luoghi però di Plinio e di Silio si argomenta chiaramente che né l’ uno né l’altro visitarono il nostro Lago.
5 Si legge questo nel libro IX, 33, 1, §. 69.
Duo lacus Italiae in radicibus Alpium Larius et Verbanus appellantur, in quibus pisces omnibus annis vergiliarum ortu exsistunt squamis conspicui crebris atque praeacutis, clavorum caligarium effigie, nec amplius quam circa eum mensem visuntur.
6 Vedi la sua
Historia del Lago Maggiore, p. 39 e 40.
7 All’incontro il Nessi nelle sue Memorie di Locarno, crede che il pesce descritto da Plinio sia la
ceppa o
cioppia (
clupea alosa de’ naturalisti) che ha la lunghezza di oltre un piede, e che dimora nei nostri laghi fino al mese di agosto; indi si parte con ordine maraviglioso nella direzione del Po mandando avanti tutti i figliuolini e che così ritorna alI’Adriatico per la stessa via, donde se n’era venuta. In questo caso però il carattere distintivo del pesce indicato da Plinio manca affatto, ond’è a preferirsi a questa l’opinione dei primi sovra indicati.
8 Fiorì Polibio nel secondo secolo innanzi l’era volgare: visse in Roma dall’anno 166 al 130 della detta era, nel qual tempo fu precettore, consigliere ed amico di Scipione il distruttore di Numanzia. Per raccogliere materiali per la sua storia viaggiò per l’Italia, le Gallie e la Spagna fu in Affrica ed intervenne alla presa di Cartagine: di là passò in Egitto. Scipione gli fece in Roma aprire gli archivi ed ebbe agio di consultare altri storici monumenti. Terminò la sua storia intorno all’anno 145 prima di Cristo nell’età di circa 60 anni. – Strabone poi fiorì sotto Augusto e Tiberio, e terminò sotto questo la sua geografia, valendosi non poco delle notizie raccolte da Polibio nei suoi viaggi, la maggior parte dei libri del quale (erano 40) andò perduta.
9 V. Polibio, 1. XXX, c. X, §. 1921 e Strabone, IV, 6,12 dell’ edizione Parigina del Didot, della quale mi piace recare eziandio la versione latina: Lacus in Alpibus ait (intendi Polibio) esse complures; tres autem maiores, quorum Benacus (il Lago di Garda) in longum D. stadia occupat, in latum CL, quo ex lacu Mincius amnis effluit. Post istum Verbanus lacus CD stadia in longitudinem patet, XXX stadiis angustior priore (
per il testo greco si veda nel pdf allegato). Is amnem emittit Ticinum. Tertius lacus est Larius (il Lago di Como) longus fere CCC, latus XXX stadia.
10 Il P. Guidone Ferrari nella XIII delle sue lettere lombarde, e l’Amoretti l.c. p. 70, e più altri leggendo diversamente accordarono al nostro Lago la stessa larghezza di quello di Garda, cioè di stadii 150, pari a circa 19 miglia romane, senza darsi pensiero di esaminare la proposta lezione, che non può reggere pel confronto che si fa in quel luogo tra il Lago di Garda e il Maggiore; e senza avvertire che quelle miglia non erano geografiche, ma romane. Io non entrerò qui nel ginepraio delle varianti di questo testo, che troppo lontano ne porterebbe il discorso: ma non posso astenermi dal recare a questo luogo un brano del sig. Attilio Zuccagni Orlandini nella sua
Corografia dell’Italia, Firenze, 1838 e segg. per dimostrare con quanta leggerezza si trattino le autorità degl’antichi. Nel vol. 2 p.46 seguendo l’Amoretti scrive: «La lunghezza del Lago Maggiore da Tenero a Sesto Calende è di miglia 44… La maggiore larghezza tra Laveno e Feriolo è di miglia 6, né saprebbe spiegarsi come da Strabone fosse valutata miglia 19 d’Italia, e come ei la prendesse da Laveno a Vogogna senza supporre che quel dotto geografo fosse ingannato da false relazioni o che i copisti vi abbiano poi corrotto il testo».
11 Stadium, scrive Columella (De re rustica, V, 1, 6),
habet passus CXXV… quae mensura octies multiplicata efficit mille passus; cioè il miglio romano, che constava appunto di mille passi, come esplicitamente è detto anche da isidoro nel libro XV Etymologiarum, XVI, 3.
Stadium octava pars milliarii est constans passibus CXXV.
12 Questa Cronaca (Chronicon Novaliciense) di autore ignoto, ma del secolo Xl, fu pubblicata ultimamente nel T. 3 dei Monumenta Historiae patriae. Si narra ivi al libro V. cap. 23, che certo Conte Sansone, il quale vesti l’abito monastico nell’ abbazia di S. Pietro di Bremedo, donò una sua corte chiamata Cannobio. Riferirò il tratto che lo riguarda, notevole per le sue particolarità: detulit curiam unam, qua servatur mos regius, nomine Cannobius; est enim sita penes rupes, habilis et nimis rutilus locus et undique septus aquarum meatibus; piscium fertilitas multa ante cuius os stagnum (così è chiamato qui il nostro Lago) mirae magnitudinis habetur; quadraginta namque millibus in longum extenditur et quinque in latum: fervet enim flatibus ventum (leggi
ventorum) aliquando ut nemo audeat ingredi, ubi quisquis obierit, visus ultra non erit. Inde Ticinus fluvius proprios trahit fluctus ingrediens et egrediens in eo.
13 Historia del Lago Maggiore, p. 7.
14 Fu anzi opinione di alcuni, che il Lago Maggiore si inoltrasse anche sopra Mergozzo dietro il monte Orfano fino a Ornavasso. Gioverà recare a questo proposito ciò che scrive il Can. Nicolao Sottile nel suo Quadro dell’ Ossola pubblicato in Novara l’anno 1810. «Secondo le antiche tradizioni, scrive alla pag. 163 parlando di Ornavasso, la pianura era inondata dalle acque della Toce, che vi formava un Lago . Ecco il motivo per cui queste vaste campagne non furono popolate dagli Ossolani. tempo, la continua depressione dei monti, l’alzamento sensibile delle pianure vicine ai fiumi e più ancora l’industria e gli sforzi dell’uomo, diedero un libero corso alle acque. li Lago insensibilmente scomparve e rimase il suo letto a pro de’ buoni Valesani. A memoria d’uomo il così detto
Lancone formava ancora un laghetto, che non è affatto disseccato, ma che col tempo lo sarà e verrà quindi ridotto in prati» – E poco dopo il medesimo, parlando di Mergozzo (p. 170) scrive: «Il territorio di questo comune nei remoti tempi faceva parte del Lago, di cui parlai superiormente ... il Lago si è ristretto ed ora biondeggiano le messi, dove guizzavano i pesci» – Si noti però che il laghetto, del quale qui parla, non dice che fosse allora congiunto col Lago Maggiore, benché si possa argomentare, che ne fosse un residuo, dopo I’avvenuto restringimento del medesimo.
15 Tra i seguaci di lui gioverà ricordar qui il generale Giacinto Collegno, autore degli
Elementi di geologia pratica e teorica, Torino, 1847, il quale onorò di sua presenza le sponde del nostro Lago negli ultimi anni della sua vita, e dove anche morì l’anno 1856 in una villa da sé edificata, presso Baveno.
16 Vedasi per maggiori schiarimenti l’opera di Luigi Figuier,
La Terre avant le déluge, Paris, 1861, in 8.° p. 472 e segg.
17 Osservarono pure, che i ghiacciai tolgono sempre più le asprezze e le sporgenze delle rocce, che toccano e tendono ad arrotondarle e a dar loro tal forma, che sembrano veduti da lontano, quando il ghiacciaio si è ritirato, un branco di montoni, chiamate perciò
roches moutonnées da Saussure e dagli altri geologi Svizzeri.
18 Morene però alle spalle del Monte Orfano parmi che non esistano o almeno non sono ora visibili.
19 Nella sua
Memoria del 28 aprile del 1861 intitolata:
I Ghiacciai antichi e il terreno erratico di Lombardia, pubblicato negli
Atti della Società italiana delle scienze naturali, in Milano, Vol. III. – Alla pag. 3, della medesima, nell’ edizione separata, troverà il lettore il catalogo de’ principali autori che scrissero prima di lui sopra questo argomento.
20 Vedi la
Dissertazione intitolata:
Intorno ai depositi lacustri e glaciali e in particolare di quelli della Val Cuvia, che sta nelle
Memorie dell’Istituto Lombardo, Vol. XI, Milano, 1870, in 4.° – Si possono consultare anche il
Saggio sulla geologia dei dintorni di Varese e di Lugano, di Gaetano Negri e di Emilio Spreafico pubblicato ivi stesso; e la
Nota dell’Avv. Bartolommeo Gastaldi, della quale è fatto cenno nelle
Memorie dell’ Accademia delle Scienze di Torino (Ser. II, T. 20, a. 1863, p. LXXX). Stabilisce egli quivi che tutte le torbiere coltivate in Piemonte sono moreniche e divisibili in due ordini, al primo de’quali appartengono le torbiere, che come quella di Angera, occupano larghi bacini e sono di pochi metri elevate dal suolo; al secondo le torbiere di Mercurago, di Oleggio Castello, di Borgo Ticino ecc., le quali occupano bacini assai più ristretti e posti sul dorso della morena ad altezze maggiori.
21 Vedi la tavola II, unita alla Memoria dell’Omboni, la quale ci rappresenta i
Ghiacciai delle Alpi Lombarde all’epoca quaternaria.
22 Dico questo perché il trovante a cagion d’esempio alle spalle di Crodo del 1846, o in quel torno, starebbe per provare, che anche le correnti fangose possono trasportare dei massi enormi, come mi fece osservare il Prof. Giuseppe De Notaris.