STRUMENTI CULTURALI

del Magazzeno Storico Verbanese

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Elenchi di funzionari e cariche pubbliche in «ANGERA»

Denominazione:
Angera
Breve Abstract:
Rocca Borromeo
Abstract:
IL PRESENTE TESTO, DISPONIBILE NELLE PAGINE DEL MAGAZZENO STORICO VERBANESE DAL 29 GENNAIO 2004, E` STATO COME ALTRI RIPRESO IN:

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Arx angularia: pare esser questo l’appellativo da cui con il trascorrere dei secoli si formò in nome di Angera. Arx angularia, “arce, castello d’angolo”: quasi a dire un cardine, una pietra angolare su cui si reggeva il sistema difensivo del Verbano, sin dai tempi della romanità imperniato sul “catenaccio” che chiudeva, tra Angera e Arona, il basso lago.

Ma Angera con ogni probabilità ebbe anche un altro nome: quello di Stationa o Staciona, che ricorda l’importanza del luogo come punto di raccolta e stazionamento della flottiglia romana del Verbano; una stazione militare, ma anche un crocevia di commerci, punto di afflusso delle merci che viaggiavano lungo la direttrice del lago, provenienti da Locarno e Ascona, o là dirette, alla volta del nord delle Alpi.

Leggendaria Angera: fabularum patria, terra di nobili fantasie! Tra esse, quella che la vuole fondata da Anglo troiano, mitico capostipite della altrettanto mitica prosapia dei Re d’Angera. Accantonate le leggende, restano i cospicui ritrovamenti archeologici, che hanno consentito di ricostruire la storia di Angera sin dalla preistoria e dalla romanità; le vicende della rocca sono invece determinabili con sicurezza almeno dall’alto Medioevo (sec. XII). Nel primitivo nucleo della rocca (forse semplicemente costituito da una torre e un recinto) le cronache vogliono passasse un santo caro alla storia milanese: Arialdo (+1066), fatto imprigionare ad Angera per il proprio duro contrasto con le gerarchie ecclesiastiche ambrosiane durante il movimento moralizzatore della patarìa; la tradizione narra di come Arialdo abbia conseguito il martirio tra orribili torture e mutilazioni nell’altra rocca arcivescovile di Travaglia; il suo corpo, gettato a lago, miracolosamente riaffiorò proprio ad Angera.

Alla seconda metà del dodicesimo secolo risale un primo manufatto difensivo, identificabile nella torre mastra intorno a cui si sviluppa tutta la rocca odierna; di un’altra torre, probabilmente coeva alla prima, resta un massiccio muro laterale, che forma la parte terminale dell’ala trecentesca, oggi chiamata “ala scaligera”, perché arricchita da affreschi recanti le imprese araldiche di Regina Della Scala e del marito Bernabò Visconti.

Intorno alla torre mastra venne aggregandosi nei secoli tra XIII e XVI il grande complesso fortificato: si iniziò con il palazzetto duecentesco, a due piani, in cui al livello superiore (impropriamente chiamato “Sala di Giustizia”…) sono affrescate le splendide scene del ciclo pittorico che illustra le gesta di Ottone magno Visconti arcivescovo di Milano. Proprio nel secolo di Ottone, infatti, la rocca, possesso arcivescovile come altre del Verbano (Arona, Brovello, Travaglia) passò sotto il controllo della casata Visconti; durante la lotta tra l’arcivescovo Ottone e la fazione rivale dei Torriani, il Visconti prese le mosse da Cannobio, e con una serie di battaglie (tra cui quella di Germignaga del 1276) riconquistò negli anni il controllo del territorio milanese. Naturale quindi che le sue gesta venissero celebrate negli affreschi angeresi; altrettanto naturale che la potente famiglia Visconti, dopo la morte di Ottone, mantenesse stretto il possesso del castello e vi intraprendesse (come signori di Milano prima, come duchi poi), opere di ricostruzione e ampliamento. Al termine della dinastia ducale viscontea (con la morte del duca Filippo Maria – 1447) per Angera entrarono in scena i Borromeo. La rocca -non il feudo, si badi- venne acquistata dall’iniziatore delle fortune di famiglia, Vitaliano I (circa 1396-1 ottobre 1449). Egli pagò per la rocca la cospicua somma di 12800 lire imperiali, versate alla Repubblica Ambrosiana, fragile governo che la città di Milano si diede tra 1447 e 1450.

Con il successivo imporsi della seconda dinastia ducale a Milano, quella degli Sforza, i Borromeo ebbero a faticare per farsi riconoscere la legittimità del possesso della rocca: lo accettò Francesco Sforza, ma già con Galeazzo Maria e ancor più con Ludovico il Moro la famiglia subì forti pressioni perché il fortilizio venisse riconsegnata ai feudatari del luogo; i duchi di Milano (i Visconti, e quindi i loro successori Sforza) si fregiavano infatti del titolo di conti d’Angera: era inevitabile che essi pretendessero (con le buone o le cattive) la restituzione della rocca, simbolo della loro potenza feudale. Ma i Borromeo, prima con il potente conte Giovanni III, poi con la sua combattiva vedova, madonna Cleofe Pio di Carpi, non cedettero: nonostante la rocca passasse in proprietà ora ad un ramo della famiglia, ora ad un altro, dal 1499 in poi essa non sfuggì mai più di mano alla casata dei Borromeo.

Dividendo equanimemente con Arona il titolo di capitale dello “stato borromeo” del Verbano, Angera ospitò nelle sale della Rocca Camillo e Giovanni Battista Borromeo, che inaugurarono una stagione di cospicui lavori edilizi; vi si recò anche il cardinal Federico, arcivescovo di Milano e fondatore della Biblioteca Ambrosiana, che nel 1623 venne infeudato di Angera con il titolo di marchese, e che però ebbe a trovare l’edificio in una situazione di decadenza e abbandono che faticò a contrastare; durante la pestilenza del 1629-1631 in essa trovarono rifugio vari membri della famiglia, fuggiti dalla Milano appestata: tra gli altri un nipotino del cardinale, Giovanni, che in quegli anni soggiornò tra Isola Madre e Rocca d’Angera. Al giovane Borromeo lo zio arcivescovo da Milano sollecitava per lettera lo studio di greco e latino; gli inviava anche pastelli e carta (accuratamente disinfettati, per scongiurare pericoli di contagio), perché il ragazzino potesse svagarsi scrivendo e disegnando nel suo rifugio verbanese.

Il marchesato venne trasmesso con alterne vicende (a causa dei cattivi rapporti del cardinal Federico con i cugini conti di Arona) sino all’estinzione del ramo marchionale in Paolo Emilio Borromeo (1633-1690); tra secolo XVI e XVII contribuirono ad importanti restauri anche Giulio Cesare III Borromeo (1593-1672) e Antonio Renato Borromeo, duca di Ceri (1632-1686); nel ‘700 la rocca entrò a far parte dei possessi di Giberto V Borromeo Arese (1751-1837), ma oramai il possente manufatto bellico aveva fatto il proprio tempo: la rocca veniva vista solo come residenza, neanche troppo comoda, per la famiglia. Tale fu il caso occorso ad esempio nei travagliati anni della Repubblica Cisalpina: proprio il conte Giberto vi risiedette con moglie e figli (1797) dopo aver cercato rifugio a Intra (allora in stato Sardo) per sottrarsi alle contribuzioni forzose cui i nobili venivano sottoposti dal governo franco-cisalpino di Milano. Con il pieno Ottocento la rocca perse ancor più interesse per i Borromeo, che al più ne consideravano l’aspetto romantico; l’intervento di Luca Beltrami –il celebre architetto restauratore di molti monumenti lombardi, tra cui il Castello Sforzesco– e le pagine di Pietro Toesca sul ciclo di affreschi ottoniani permisero che si riscoprisse la bellezza di quelle severe mura; si intrapresero nuove attività di manutenzione e restauro, che da allora non sono mai più mancate: complice forse anche il fatto che il titolo principesco, attribuito negli anni ’20 del XX secolo ai Borromeo (dopo che in antico san Carlo -si dice per beneficare i poveri con il ricavato della vendita- aveva rinunciato al titolo di principe d’Oria), è proprio relativo ad Angera…

Risorta a nuova e splendida vita, la Rocca d’Angera ospita ben due musei, creature di quella raffinata ed appassionata collezionista che risponde al nome della principessa Bona Borromeo Arese: sue sono state le idee e le forze dispensate per dar vita al Museo della Bambola e al Museo dell’Abbigliamento Infantile. Ma il visitatore non troverà solo bambole e pizzi; a partire dagli ambienti che ospitano uno splendido monumentale torchio seicentesco (con vite più volte sostituita sino al 1745), ricavato da un mastodontico tronco d’albero, per passare alle sale che ospitano una ricca quadreria: tele che ora esaltano i fasti famigliari dei Borromeo, ora alludono a temi mitologici, ora riprendono in copie seicentesche capolavori di artisti rinascimentali (quali il Bellini e il Luini); affreschi di epoca viscontea affiorano sulle pareti della torre di Giovanni Visconti, e contendono il posto ad altri quattrocenteschi, rappresentanti scene di vita e gioco curtensi, attribuiti a Michelino da Besozzo; essi adornavano il palazzo Borromeo di piazza Santa Maria Podone a Milano, quasi interamente distrutto nei bombardamenti dell’agosto 1943. Nella Sala di Ottone Visconti gli importantissimi affreschi di fine ‘200 fronteggiano in fastosa parata una lunetta, ad essi coeva, rappresentante la Madonna con il Bambino tra i santi Agnese, Ambrogio e Bartolomeo; questo affresco, un tempo esistente nella chiesetta castrense dedicata a San Bartolomeo, invita il visitatore alla scalata della torre mastra, da cui si può ammirare l’arioso panorama del basso Verbano, circondato dalle colline delle Prealpi e limitato in lontananza dalla maestosa catena del Rosa. Non mancherà, a chi sappia cercare, la vista di una gigantesca mano benedicente, di là del lago, sopra Arona: è il colosso del Sancarlone, da tre secoli visione famigliare a verbanesi e viaggiatori forestieri di tutt’Italia e di tutte le nazioni.



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Autore:
   [Gioacchino Civelli]

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Magazzeno Storico Verbanese

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Biografia Carlo Alessandro Pisoni

Carlo Alessandro Pisoni (Luino, 1962 - Varese, 2021). Seguendo le orme del padre Pier Giacomo, dal 1991 al 2017 è stato conservatore, per gentile concessione dei principi Borromeo, dell'Archivio Borromeo dell'Isola Bella. Appassionato studioso e ricercatore, ha sempre voluto mettere a disposizione degli altri conoscenze e scoperte, togliendo la polvere dai fatti che riguardano Lago Maggiore e dintorni; insieme a studiosi e amici, ha riportato alla luce tradizioni, eventi e personaggi passati dal lago, condividendoli con la sua gente.

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