STRUMENTI CULTURALI

del Magazzeno Storico Verbanese

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Elenchi di funzionari e cariche pubbliche in «CANNOBIO»

Denominazione:
Cannobio, Santuario della Pietà
Breve Abstract:
Descrizione delle opere conservate nel Santuario
Abstract:
Lungo la parete, due grandi tele, incorniciate con fregi di marmo e di risvolti di stucchi dorati, ricordano due scene dei fatti del 1522. E` la ragazza Antonietta de` Zacchei che, entrata nella stanza a prendere biancheria, vede il quadro agitarsi, come mosso da furioso vento, e chiama la mamma e il papà perché accorrano. Poi è la scena del miracolo della Costa nella sera del 9 gennaio. Sulla tovaglia sta un ossicino con carne sanguinante: i numerosi spettatori, mirano fra la più viva meraviglia l’emissione di sangue e la preziosa reliquia. Le due tele, se non meritano il nome di opera d`arte, non sono spregevoli.
Dove la parete si lega al pilastro di sostegno della cupola, sporge un pulpito di un sol blocco di marmo rosso e nero. Scolpita a rilievo è l`immagine della Pietà, inquadrata nel mezzo. Il nome Ambrogio Zoppo sta a testificare il munifico donatore. Poco in su, entrati nel sottocupola, a sinistra vediamo l`altare dedicato alla Vergine del Rosario. Nel 1593, addì 5 settembre, con istromento rogato dal notaio Giov. Pietro Omacino, veniva costituita la compagnia del Rosario e però uno dei tre altari veniva destinato alla Vergine.
Il simulacro della Vergine, vestito, contro ogni regola di estetica, forse vi fu messo in epoca molto posteriore e costituisce una nota stonante in mezzo a tant`arte. In forma di corona circondano la nicchia centrale 15 quadretti ovali, raffiguranti i quindici misteri del Rosario, opera di pennello mediocre.
Le due pareti hanno due grandi tele. A sinistra la Vergine si libra negli spazi celesti: in basso varie figure bibliche ne cantano la gloria hortus conclusus, fons signatus, turris davidica; vi si vede una fontana, una torre, un orto chiuso, un cinnamomo e un cedro. A destra la Vergine del Rosario che dà a S. Domenico la corona: due busti dipinti agli angoli in basso ricordano certo i coniugi devoti che commisero al pittore l`opera.
Nella voltina, angeli a libere movenze fanno bella danza e corona alla Madre di Dio.
Entriamo nel presbitero e siamo all`altare maggiore, al luogo storico dei grandi fatti, anzi press’a poco nella stessa posizione di quella cameretta che fu testimone del miracolo. Per mutare il meno possibile la località, preferirono i nostri padri rinunciare al coro che qui manca, al tabernacolo, che pure qui manca, sostituito dalla taumaturga pergamena.
Qui tutto è un inno al dolore di Gesù, tutto è un richiamo di quel dramma misterioso.
Alle pareti due vaste tele, la coronazione di spine a sinistra e la flagellazione a destra.
Nella prima Gesù è posto a sedere in atto di agnello mansueto fra i lupi: attorno una accozzaglia di soldati e di ragazzi che insulta a quel divino. Nella seconda Gesù posa le mani legate su una mezza colonna, un soldato, gliele tiene fisse con violenza: un altro leva il flagello e percuote, un terzo si fa dare da un garzoncello uno staffile. Il volto di Gesù è messo di scorcio: vi traspare un dolore inenarrabile.
Le due tele stanno ciascuna fra due piccoli affreschi che sono di pennello migliore; più chiarezza di colori, meno rigidità di forme. Sono quattro altre scene della passione. E cioè sulla parete sinistra, verso la sacristia, sopra la porticina vediamo Gesù avanti a Pilato che lo interroga e lo giudica. Nel secondo affresco, presso la vetrata a colori troviamo l’ecce homo, Pilato che presenta Gesù sanguinante al popolo per muoverlo a pietà.
Nella parete a destra, sopra la porticina che mette all`archivio, il bacio di Giuda nelle tenebre del Getzemani rischiarate dal riflesso incerto delle fiaccole: Pietro, nella parte inferiore del quadro, taglia, nel suo furore, un`orecchia a Malco che cade rovescio a terra. Presso la vetrata, Gesù avanti al sommo sacerdote Caifa che fa lo scandalizzato, accusando Gesù di bestemmia, e si strappa le vesti: vivo contrasto fra l`umile posa del Redentore e la burbanzosa protervia di Caifa. Queste quattro tele sono di scuola ispirata a Gaudenzio Ferrari: manca forse il vivo contrasto di colori; in parte lo si deve alla luce che piove scarsa dalla cupola. La volta si ispira tutta al Calvario, il teatro ultimo del dramma.
Nel mezzo la sola Croce trionfa, portata da un alato angelo: attorno in vari riparti altri angeli con le insegne della crocifissione, cioè scala, lancia, spugna, chiodi, sembrano aleggiare, con la posa pietosa e le movenze svelte, in un sol pensiero tutti. Di fronte l`uno all` altro due affreschi riproducono la crocifissione e la deposizione dalla Croce. Un soldato leva in alto il martello e lo fa ricadere pesante sul chiodo, che già ha perforato i piedi di Gesù, steso sulla Croce. La Vergine lì presso è caduta al suolo, svenuta, soccorsa dalle pie donne. Queste le due scene principali della crocifissione. Attorno, sul monte, soldati che preparano, gente accorsa a vedere. La prospettiva lascia forse a desiderare in questo affresco e la Vergine, messa al primo piano, quindi con proporzioni troppo grandi, rivela il Seicento che amava le pose forzate e contorte. Ma il complesso è di ottimo effetto.
Nella deposizione dalla Croce il cadavere di Gesù viene calato da Nicodemo. Giuseppe d`Arimatea, Giovanni e le pie donne lo ricevono tutte premurose e piene di pietà per la divina spoglia. L`abbandono cadaverico di Gesù è ben riprodotto e richiama alla mente le deposizioni dateci dai migliori pennelli italiani.
Ma l`occhio corre ansioso alla pergamena che sta invece del tabernacolo. Una lastra di argento la difende e, sotto questa, un`altra di vetro la protegge dalla polvere e dal contatto diretto dei devoti che la sciuperebbero.
Sopra risplende di una bellezza fresca, imperitura, uno dei capolavori del pennello di Gaudenzio Ferrari. Valduggia alle porte della Valsesia, fu patria al glorioso pittore: discepolo prima di Leonardo da Vinci, il maestro della scuola milanese, poi a Roma di Raffaello, dai due sommi ritrasse il segreto dell`espressione, la perfezione del disegno e la vivezza del colorito.
Il dipinto è su tavole di legno non troppo ben connesse, tanto che si intravedono le giunture. Misura 2 metri di larghezza per circa 4 di altezza. Rappresenta l`incontro di Gesù con Maria sulla via del Calvario. Richiama alla mente lo stesso tema svolto da Raffaello nello Spasimo di Sicilia, oggi ornamento della Galleria del Prado a Madrid. G. Ferrari, che lavorò con Raffaello in Roma, con tutta probabilità vide quest`opera del sommo Urbinate e di lì prese l`ispirazione.
La scena, semplice in sè, è arricchita mirabilmente. Gesù sotto la croce è trascinato da sgherri che lo insultano e attorno si addensano a spingerlo villanamente. Dietro, dei tribuni, dei proconsoli cavalcano e incalzano la folla. Sventola una bandiera con la sigla S. P. Q. R. senatus popolusque romanus. Un`antica arcata sta a sinistra a segnare che l`incontro avviene alle porte della città. Questo cumulo di persone si incentra in Gesù, che, nel mezzo, tutto appare in posa maestosa non ostante il pesante legno sulle spalle. Pare quasi che il Redentore, vista la Vergine, per diminuirne lo strazio abbia raccolto tutte le sue energie e in uno sforzo estremo voglia nascondere la sua pena e il suo dolore. Dimentico di tutto. Gesù mira con uno sguardo pietosissimo la Madre.
La Vergine cade svenuta, soccorsa dalle pie donne che le fanno corona. Giovanni, l`apostolo prediletto, non può resistere al pianto ed è dipinto in atto di asciugarsi le lagrime e di torcere lo sguardo dalla scena troppo emozionante. Il pallore della Vergine, la posa di abbandono, la tristezza di questo gruppo di donne fa vivo contrasto con la ferocia della soldatesca che pare s`avvanzi violenta, indifferente a tanto amore e a tanto dolore da spezzar le pietre.
Il colorito, dopo quattro secoli, si conserva fresco e quasi appena uscito dal pennello. La luce fa difetto e però per apprezzare questa tavola conviene scegliere certe ore del giorno, almeno dopo le ore 10 del mattino, quando molta luce piove dalla cupola e dalle finestre lungo le pareti. Mettendosi allora alla porticina che dà nell`archivio, l`occhio può discernere e studiare bene i particolari.
Sotto il quadro, due tavolette, fiancheggianti la pergamena, mostrano angioli in atto di adorazione di buona fattura, che pur rivelano il pennello di G. Ferrari.
Sopra il quadro una lastra di marmo nero porta un distico, in memoria del miracolo, e a conforto di Cannobio. Eccolo:
Hic tibi dat Pietas cum sanguine et ossa. Canobi
Quid tímeas, quando haec pignora amoris habes?


Due colonne di marmo nero, reggenti un timpano, e fregi marmorei incorniciano bene l`opera gaudenziana.
Il solito tema o leitmotiv della Pietà e del dolore lo vediamo ricomparire anche sulle vetrate a colori vivi e di buona fattura. Nelle due finestre laterali due angioli dalle grandi pro porzioni fra un ghirigoro di greche, di fìorami, accennanti un po` agli angioli del Beato Angelico nella Incoronazione della Vergine, svolgono un nastro con le parole profetiche.
L`uno dice: Videbunt in quem transfíxerunt; l`altro: haurietis aquas de fontibus Salvatoris. Furono donati da Giuseppe Ceroni nell`anno 1874. Escono dalle vetrerie di Bordeaux.
In alto la finestra trifora ci ripete la Pietà con una lastra policroma. Vi fu messa nel 1884 per cura della Fabbriceria. Costò la spesa di lire 5000. li lavoro fu eseguito a Torino e doveva figurare all`esposizione nella stessa città, se fosse stato a tempo finito. Un furioso vento ne atterrò la parte centrale alle ore 10 del 1 Febbraio 1898 e la mandò in cento frantumi. La pazienza di un cannobiese, tuttora vivente, riuscì a ricomporla nella forma primiera (1). Ora è rinchiusa fra due lastroni dl vetro e non teme più venti e procelle.
La cupola ottagona è pur degna di una parola. Dalla base fino al lucernario è tutta una selva di stucchi, di statue, dì affreschi. Angioli in diverse pose, legati a catena, quasi danzanti soavemente. Angioli in contemplazione, poggianti su piccole mensole; teste alate di angioli, ghirlande di fiorì. Ai grossi medaglioni di affreschi ne succedono altri gradatamente più piccoli. La poca luce impedisce di discernere nettamente le linee. Ma più si osserva e più si scopre del nuovo. Certo qui si è avanti ad un`ornamentazione barocca, troppo carica, quasi opprimente: era il gusto del tempo e la smania dell`eleganza spagnolesca ridondante. Persino le pure linee classiche dei cornicioni furono rotte dal cattivo gusto; qua è un angelo seduto in posa bizzarra, là un altro che sembra li lì per cadere, poi un terzo con fasce svolazzanti o agitante una tromba. Il ghiribizzo trionfa anche negli stucchi che inquadrano pitture o devono riempire qualche vano tra affresco e affresco.
Pure sotto tanto peso ornamentario l`opera del Pellegrini non ne è oppressa. È tale la proporzione delle varie parti tutte, che l`insieme è di un tono svelto e grazioso.
Percorrendo la parete a destra, per completare la nostra visita, troviamo l`altare di S. Lorenzo. Sta a ricordare l`antica chiesa di S. Lorenzo che sorgeva poco lontano, presso quella di S. Giustina, e che fornì il materiale per il Santuario.
Nell`ancona centrale il Santo martire è steso sulla graticola infuocata e vi è tenuto e poi rivoltato con uncini dai carnefici: pittura un po` oscura, a tinte cariche. Alle pareti due tele presentano Lorenzo che si vanta di aver per tesori i suoi poveri, e Lorenzo che tradotto avanti ai giudici li confonde con le sublimi sue risposte di cristiana sapienza.
Nella volta sono segnati con affreschi due momenti del martirio. Lorenzo martoriato con infuocate lamine.
In simmetria col pulpito di sinistra, un secondo a destra spicca per la semplicità e ricchezza. Un blocco di marmo rosso e nero. Nella luce anteriore è riprodotta la Vergine del Rosario.
Il nome del donatore è sotto segnato, Giov. Antonio Branca. Ancora due tele, sempre con stile barocco incorniciate, richiamano due altre scene dei fatti del 1522. La prima riproduce il Can. Bernardino del Sasso Carmine che, vestito con sacri preziosi paramenti, prende riverente fra le dita la sacra costa luminosa per riporla in un calice che egli stringe con la sinistra. Sacerdoti, chierici, fedeli lo circondano, pronti alla processione per salire alla Collegiata di S. Vittore. Era la sera del 9 gennaio e la luna introdotta, a destra, dal pittore ci riporta a quella sera di fervore e di commozione.
La seconda ricostruisce la scena del venerdì, 10 gennaio 1522. Secondo la deposizione di Tomaso de` Zacchei, alla presenza di molto popolo, di Giov. Carmine, di Francesco Poscolonna e Matteo, domestico del conte Ludovico Borromeo, del conte Federico Borromeo e dei due fratelli D. Carlo e D. Camillo Borromeo, la pergamena diede sangue a spruzzi tali da bagnare gli astanti. La persona, che con la sinistra sull` elsa della spada e la destra al fianco assiste ritta in piedi, potrebbe essere uno di questi Borromei. Il sacerdote con le forbici stacca dal velo di una donna (2) la parte bagnata dal sangue per conservarla fra le reliquie.
Questi due dipinti e gli altri di fronte portano la scritta Francesco Antonio Petrolino, il nome del benefattore munifico. Presso la porticina di destra, in una nicchia, una madonnina di mediocre pennello sta contemplando il bambino. L`epigrafe sottostante su marmo bianco ricorda un benefattore del Santuario, Giovanni Coppino che, arricchitosi con l`industria e l`attività a Roma, non dimenticò la terra nativa e le memorie sacre dei suoi antenati.
La volta della navata, tra i soliti risvolti e le pieghettature degli stucchi, ha due affreschi mediocri. E` Gesù nell`orto di Getsemani che col sudore sanguigno prelude al lavacro rinnovatore di tutta l’umanità. Poi è Gesù che prende commiato dalla Vergine per cominciare l`opera sua di pacificazione fra gli uomini e Dio, versando quale prezzo tutto il suo divin sangue.
Nel centro dell`arco che dalla volta mette sotto la cupola una breve ma succosa epigrafe canta la gloria del miracolo non fecit taliter omni genti. Non così fece Dio con tutti i popoli.
Il Cannobiese fu davvero prediletto e ricevette un tesoro speciale. A lui restava il dovere di custodirlo gelosamente e di tributargli i convenienti onori. Così fu fatto.

(1)È il sig. Giuseppe Gallotti, che, con uno speciale amore, tanto si adopera per il decoro della Chiesa nostra. Alla sua iniziativa si devono molte migliorie nella Chiesa di S. Marta, come il trasporto dell`ancona all`altar maggiore, la pavimentazione nuova, ultimata nel 1897.

(2) Era costei la moglie del governatore di Milano venuta coi Borromei a Cannobio attratta dalla fama dei portentosi eventi. La stessa visita dei Borromei è riprodotta anche in un quadro commemorativo che vedesi nella sacristia del Santuario. Là presso ve n`è un secondo che ricorda la vicenda toccata a un sacerdote che si prestò a far toccar la pergamena miracolosa con una moneta di un mercante che sperava con ciò, nell`avidità di oro, fare buoni affari. Il sacerdote accecò improvvisamente e solo quando, richiamato il mercante e ritrattata la cattiva intenzione, si fece atto di riparazione, egli riacquistò la vista. Di questo fatto vi è documento giurato nell`Archivio del Santuario Altre tele consimili legate con le scene del 1522 si trovano nella sacristia di S. Vittore e in quella di S. Marta.



P. Svanellini, Il santuario della Pietà di Cannobio (Lago Maggiore). Origine e storia, Luino 1910, pp. 40-49.
Autore:
   [Paolo Svanellini]
A Cura di:
   [Anna Elena Galli]

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